VIAGGIO ALLA RICERCA DELL'INGREDIENTE DIMENTICATO:
OKINAWA, LA TERRA DELLA CORTESIA
Castello di Shuri |
Buonasera, è con grande entusiasmo e meraviglia che mi appresto a raccontarvi in questo articolo del viaggio al quale ho avuto modo di prender parte verso una terra lontana che da tempo sognavo di visitare e che voglio documentare in modo da poterlo, quando ne avrò il desiderio, tornare a rivivere non solo con la memoria ma con qualcosa di concreto. Voglio, prima di procedere al racconto, consegnarvi un insegnamento importante che quest'esperienza mi ha fornito. Vi confesso che da quando ho iniziato a praticare arti marziali poco più di cinque anni fa, il desiderio di recarmi ad Okinawa è cresciuto nel tempo. Il mio interesse verso questo vasto mondo si è alimentato grazie a numerose letture, ricerche e ovviamente anche grazie alle moderne tecnologie che consentono di vedere realtà lontane con un semplice "click" dal mouse del computer. In queste ricerche ho incontrato e fatto la superficiale conoscenza di diversi luoghi più o meno lontani, ma dentro di me c'era un luogo che più di altri mi attirava grazie ad un insieme di caratteristiche vicine al mio modo di essere. Questo luogo era Uchina (questo è il nome di Okinawa nel dialetto locale).
Okinawa è l'isola più grande dell'arcipelago delle Ryukyu, un tempo regno a se stante e oggi prefettura giapponese. Ai più è conosciuta principalmente per il fatto di essere il luogo al mondo dove c'è il più alto tasso di concentrazione di persone ultracentenarie e per essere il luogo dove è nata l'arte marziale più praticata al mondo: il karate. Ma oltre a queste note particolarità penso ne possieda molte altre da scoprire e spero che grazie a questo mio racconto alcune risaltino. L'insegnamento di cui sopra vi parlavo riguarda il fatto che nella vita molto di quello che ci succede è frutto di nostre azioni e pensieri. Non ho certo scoperto l'America, ma questa esperienza me ne ha dato conferma. Il mio desiderio di recarmi un giorno su quest'isola è diventato realtà grazie ad un insieme favorevole di fattori, ma molti di questi sono stati frutto di scelte ben precise, di impegno e tempo investito verso una meta. Quindi nonostante la razionalità più volte mi abbia ricordato di restare con i piedi per terra, non ho mai smesso di sperare e di inseguire questo sogno. Sono stato fortunato ammetto a poterlo realizzare ma è anche vero che abbiamo la possibilità di crearci un poco di fortuna. Spero di non essere sembrato presuntuoso con questa piccola "lezione" di vita, così mi piace chiamarla perché lo è stata per me, e mi auguro potrà infondere coraggio a chi magari pensa di non poter realizzare i propri sogni. È giunto però il momento di ripartire grazie alla memoria verso quella lontana terra della quale voglio narrarvi:
Buon viaggio.
Con grande euforia velata di paura per il lungo viaggio che aspettava me ed i miei compagni di avventura il 13 gennaio 2019 il grande giorno era finalmente arrivato. Partenza dall'aeroporto di Malpensa (Milano) con davanti tre scali e tante ore di attesa tra un volo e l'altro, ma sopratutto più di 10 mila chilometri di distanza dalla destinazione. Tra una chiacchierata ed un'altra, alternanti fasi di dormi-veglia, la lettura di qualche pagina di libri appositamente portati per ammazzare il tempo, l'ascolto di qualche nota classica rilassante e qualche spuntino la distanza si faceva sempre più breve fino al fatidico e tanto atteso atterraggio in terra giapponese. Sceso dall'aereo una misteriosa energia mi ha investito assieme ad un'aria tiepida ed umida tipica del clima tropicale. Era fatta mi trovavo a Naha capoluogo dell'isola.
Dettaglio dell'interno dell'aeroporto di Naha. Non avevo mai visto un aeroporto pieno di fiori. |
Dopo aver provato la monorotaia sopraelevata che domina e mette in comunicazione tutta la città, e aver preso un taxi verso il nostro hotel, abbiamo avuto un primo contatto con la cortesia tipica del posto. A dir la verità il ragazzo che ci ha aiutato chiamando la segreteria del nostro hotel per farci avere la password per entrare non era di Okinawa, ma uno studente cinese, ad ogni modo ci ha aiutato, senza voler nulla in cambio, ad entrare nell'edificio per un tanto atteso e meritato riposo. Grazie ad una dormita rigenerante la mattina seguente ci siamo potuti avventurare nelle strade di Naha e grazie alla nostra guida, (senza la quale saremmo stati persi) Emanuel che era alla sua settima visita in questa terra, abbiamo potuto iniziare a prendere dei punti di riferimento che ci sarebbero tornati utili durante il nostro soggiorno. Un'altra persona che ci ha aiutato e con la quale abbiamo passato diverse ore in compagnia, è un altro italiano, che però vive da alcuni anni sull'isola, Pietro, il suo nome, è stata una bella conoscenza così come un altro ragazzo originario dello stivale, suo amico ed anch'esso momentaneamente residente a Naha, Gino, così lo chiamano gli amici. Grazie a queste due persone abbiamo avuto modo di conoscere anche alcune realtà locali che solo il tempo può far emergere e che gli occhi di un nuovo arrivato difficilmente notano. Le ore di questo primo ed intero giorno giapponese son volate tra una scoperta e l'altra e una volta fatta la conoscenza della strada principale della città, Kokusai-dori e del mercto di Makishi ci avvicinavamo sempre di più al primo contatto con la pratica del karate in un dojo tradizionale di Okinawa. Ancora momentaneamente sprovvisti di bicicletta, mezzo molto utile per girare la città ma abbastanza raro, ci siamo incamminati verso il dojo del maestro con il quale ci saremmo allenati durante questo viaggio di studio. Dopo tre quarti d'ora di cammino a passo sostenuto arrivammo al dojo, una bella stanza tradizionale con un piccolo bagno sottostante l'abitazione del maestro. Tempo di cambiarsi e via subito in mezzo alla "mischia". L'impatto è stato diretto, sopratutto con il capo-istruttore del dojo che uno ad uno in modo fermo e apparentemente rude ma in realtà segnale di interesse nell'insegnarci, ci ha corretti cercando principalmente di farci vincere l'ansia mentale e la rigidità fisica. Ciò che mi ha colpito maggiormente fin dal primo istante è stata la costante sensazione di essere in un luogo dove attraverso il sudore e l'aiuto reciproco veniva portata avanti una tradizione antica ed oltre a questo ho per la prima volta avvertito la mia mente libera da qualsiasi pensiero e totalmente concentrata sulla pratica. Voglio dedicare un approfondimento, prima di procedere con il racconto del viaggio,al modo in cui si svolge una sessione di allenamento sull'isola dove è nato il karate perché penso possa essere fonte di ispirazione per chi pratica ed insegna quest'arte e anche per far riflettere coloro che hanno appreso e a loro volta insegnano questa disciplina con un modo di fare militaresco che sinceramente da quello che ho potuto vedere con i miei occhi è lontano dalla realtà. Ovvio che con questo non voglio mettere in discussione metodi di allenamento né tanto meno insegnanti ma voglio semplicemente rendere noto un sistema diverso da cui son rimasto colpito. Eccovi la mia esperienza:
Un allenamento "tipo" ad Okinawa
Ecco il nostro gruppo nel dojo del Maestro Maeshiro Morinobu |
Entrando nel dojo si saluta chi vi è già dentro dicendo semplici e comuni parole o frasi basate sulla fase della giornata in cui ci si trova seguendo le normali etichette della buona educazione (es. buongiorno/buonasera). In Giappone si saluta facendo il classico inchino rivolto ai presenti. Se si vuole si può fare un inchino prima di entrare e prima di uscire anche se non vi sono presenti come segno di rispetto del luogo e a chi nel passato vi ha insegnato, ma non mi è sembrata una norma obbligatoria. Si lasciano le calzature con le quali si è arrivati già girate nella direzione dell'uscita cosa comune in ogni ingresso, dalle case ai luoghi pubblici (è buona norma ed educazione togliersi le scarpe anche prima di entrare in un camerino dentro un negozio per provare dei vestiti). Si procede dunque ad entrare sul pavimento d'allenamento scalzi. Si può arrivare già vestiti con il karate-gi (non kimono come ancora molti utilizzano dire) oppure si può arrivare vestiti normalmente. Per cambiarsi si possono utilizzare i bagni o gli sgabuzzini. In caso si fosse arrivati con i pantaloni del gi e sopra una maglietta si può indossare la casacca, rimanendo sul tatami, facendolo a modo. Mentre si aspetta l'inizio della lezione è normale scambiare qualche parola con i presenti e spesso capita che qualche praticante di grado avanzato prenda con se le cinture inferiori per cercare di correggere degli errori oppure per vedere qualcosa di nuovo. In maniera autonoma si può aspettare l'inizio della pratica facendo esercizi di riscaldamento oppure utilizzare alcuni attrezzi tradizionali o provare tecniche e movimenti. In poche parole non ci sono regole fisse, o schemi dai quali non si può uscire, l'importante è mantenere un atteggiamento marziale ed educato come richiede quel contesto ma che va bene anche in altri contesti. Non sono mancate mai risate e battute scherzose prima e dopo dell'allenamento. Una volta che il Maestro o chi è incaricato a dare il via alla lezione decide di incominciare ci si dispone pronti cercando di occupare bene gli spazi. Solitamente le cinture inferiori con i bambini si posizionano davanti mentre le cinture avanzate restano dietro. Il più delle volte si inizia senza particolari rituali di saluto ma può anche capitare che questo venga fatto. Per quanto riguarda lo stile e la scuola in cui ho avuto modo di cimentarmi l'allenamento parte con gli esercizi propedeutici che si svolgono in coppia. Questi esercizi aiutano a sviluppare e capire i concetti base dello stile e sono indispensabili. Una volta finiti questi esercizi si passa al cuore del karate tradizionale: il kata. Non è raro che durante gli esercizi propedeutici chi ha la competenza necessaria aiuti chi è alle prime armi facendo svolgere degli esercizi specifici che prevedono l'uso di strumenti tradizionali per comprendere meglio concetti e segreti nascosti in quell'esercizio. I kata vengono praticati seguendo i comandi del Maestro in modo da andare tutti allo stesso ritmo e per rispettare i giusti tempi delle tecniche. Si parte con i kihon kata ovvero delle forme in cui si eseguono le tecniche principali e base dello stile ed più in generale del karate. Dopo questi si passa al kata fondamentale dello stile, il Naihanchi (Tekki per chi pratica Shotokan). Dopo aver eseguito la prima volta il kata si studiano singolarmente alcune delle principali tecniche ripetendole a modi kihon. Dopo i tre kata Naihanchi (shodan, nidan e sandan) si studiano i Pinan (Heian per chi pratica Shotokan) per poi passare a kata più avanzati. Ci sono due aspetti importanti da menzionare che contraddistinguono la pratica dei kata ed in generale del karate ad Okinawa. Tra un kata ed un altro oppure tra una serie di kata ed un'altra vengono autorizzate delle pause. Sono pause mirate a riprendersi rifiatando, asciugandosi dal sudore oppure bevendo dell'acqua che ci si può portare o del tè che viene offerto. Nel nostro caso specifico era sempre presente ad ogni allenamento una caraffa di mugi-cha (tè d'orzo) che ci si poteva servire in dei bicchieri di carta. Ma il secondo e forse più importante scopo di queste pause è quello di consentire ai praticanti di chiedere consiglio ad altri praticanti in caso non si ha capito qualcosa oppure per utilizzare gli strumenti tradizionali come il makiwara oppure la versione okinawense dell'uomo di legno, il kakete-biki o kakiya. Infine in queste pause si viene spesso corretti su alcuni errori o difetti commessi durante i kata che non sfuggono agli occhi dei più esperti, ma si può anche essere semplicemente aiutati a migliorare alcune tecniche, posizioni ecc... . Ecco quindi che un' apparentemente semplice pausa può diventare molto importante se sfruttata bene. Altro aspetto importante riguarda l'abitudine di studiare alcune applicazioni del kata dopo averlo eseguito. In questo modo il praticante inizia a capire perché nel kata si esegue un certo movimento o si esegue una certa tecnica. Queste applicazioni si studiano in coppia e aiutano davvero molto. Allo scadere del tempo il Maestro invita i praticanti al momento del saluto che però avviene sempre dopo aver praticato qualche minuto di mokuso, una sorta di "meditazione" il cui scopo è quello di staccare la spina dall'attività appena svolta per tornare alla vita al di fuori del dojo. Quindi dopo essersi inginocchiati in seiza ed aver svuotato la mente si esegue il saluto ringraziando per quanto appreso e una volta tornati in piedi ci si ringrazia tra compagni di allenamento. Dopo questo momento ci si va a cambiare oppure se non ci si cambia si procede ad uscire dal dojo salutando e dandosi appuntamento alla prossima sessione. Durante questi allenamenti è stato bella e forte la sensazione costante di appartenere ad una famiglia. Nessuno vuole eccellere, nessuno critica nessuno, ci si aiuta e ci si allena duramente ma sempre con il sorriso (se non sul volto sicuramente nel cuore) in un clima amichevole e semplice. Gli okinawensi sono rilassati e praticare in un dojo di Okinawa mi ha fatto rilassare ed estraniare dal mondo. Non avevo né modo né voglia di pensare ad altro. Ho praticato per la prima volta con mente, corpo e spirito.
Qui siamo nel secondo dojo in cui ci siamo allenati: l'hombu dojo (dojo principale) della scuola Shidokan |
Questa è stata la mia personale esperienza condivisa con altre persone, ed ovviamente mi rendo conto che questa non possa essere presa come punto di riferimento, o rispecchiare fedelmente l'esperienza di tutti coloro che hanno praticato o avranno modo in futuro di praticare in un dojo su quest'isola però credo che in linea di massima il karate venga praticato e vissuto ad Okinawa in modo simile a quanto ho descritto con ovviamente le differenze inerenti alle diverse scuole ed i diversi stili. Ho partecipato a otto sessioni di allenamento durante i giorni trascorsi a Naha, praticamente, escludendo i giorni di arrivo e partenza ed il sabato e la domenica a cavallo tra le due settimane, quasi un allenamento al giorno e devo dire che ho appreso molto sicuramente grazie al metodo ormai codificato ed efficace sviluppato in quella scuola e trasmesso di generazione in generazione. Tra le varie sessioni di allenamento le giornate passavano in fretta tra una visita a qualche sito storico-culturale, qualche passeggiata rilassante all'interno di alcuni giardini e parchi, poche ma buone pause nella vicina spiaggia di Naminoue e numerose camminate e biciclettate per raggiungere i diversi luoghi.
I giardini Fukushu-en in stile cinese |
La spiaggia di Naminoue |
I giardini Shikina-en in stile giapponese |
Per tornare a parlare delle gente di Okinawa voglio raccontarvi in breve di una serata che abbiamo passato all'interno di un piccolo ma accogliente bar in stile giapponese dove ci siamo sentiti come a casa. Preciso che questo locale e la cordialità a livello familiare che abbiamo ricevuto siamo stati in grado di conoscerlo e riceverla grazie alla pregressa conoscenza che Emanuel aveva con le persone del locale. Questo non significa che senza conoscenze saremmo stati scacciati con urla però in primis probabilmente non l'avremmo facilmente trovato e comunque è un dato di fatto che su quest'isola la buona parola e l'essere presentati da persone che hanno già guadagnato la fiducia degli isolani aiuta ad essere accolti più facilmente e velocemente. In ogni caso una volta entrati nella piccola sala con in sottofondo della musica proveniente da un vecchio jukebox siamo stati accolti con sorrisi e molta curiosità dal proprietario del bar, la barista a da un signore con il quale avevamo appuntamento al bar. Si trattava di uno dei praticanti, non più giovincello, della scuola dove ci siamo allenati. La serata è trascorsa in grande allegria, e nonostante il grosso limite della lingua grazie ad un minimo di inglese più o meno scolastico siamo riusciti a scambiare qualche frase con i presenti e con alcuni avventori del bar arrivati dopo di noi e che si sono uniti nelle attività come se fossimo tutti parte di un unico gruppo di amici. Abbiamo scambiato qualche parola con queste persone e ci siamo intrattenuti scrivendo i nostri nomi su alcuni fogli utilizzando pennello ed inchiostro. Durante la serata abbiamo avuto modo di assaggiare il famoso awamori, ovvero la versione okinawense del sake giapponese che però si beve freddo, e abbiamo assaggiato alcune pietanze tipiche come la "pizza di Okinawa" che nonostante abbia poco in comune con la nostra pizza ci è molto piaciuta. Siamo poi stati intrattenuti dalla barista e dal nostro compagno di allenamenti che hanno suonato e cantato per noi utilizzando lo strumento più usato ad Okinawa ovvero il sanshin, strumento a tre corde accompagnandolo con il tipico modo di cantare dell'isola. La barista che era da quel che ho capito una semi-professionista in quest'arte musicale mi ha emozionato cantando e suonando una tipica canzone usata per accogliere chi veniva e viene sull'isola. Dopo qualche ora uscendo da quel posto ho avvertito qualcosa di forte nel momento del congedarci con il signor Takara, (il praticante di karate) in quanto ho avvertito la sua emozione nel salutarci che però da giapponese ha saputo contenere in maniera educata. Noi occidentali la definiremmo freddezza ma sono sicuro di aver avvertito in lui le stesse sensazioni che provavo io, semplicemente veniamo da due culture differenti che manifestano in modo diverso le proprie emozioni.
Ingresso di Tsuboya la via delle ceramiche e dell'artigianato locale |
La corda gigante da Guinness World Record usata per fare un gigantesco tiro alla fune durante un festival a Naha |
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